Uganda…Cuore d’Africa!

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Silvia Amadori

L’Uganda, nel centro dell’Africa è un viaggio per chi ama la potenza della natura, gli animali selvaggi e l’incontro con persone che sembrano lontane nello spazio e nel tempo.

Un paese con i ritmi necessariamente lenti, le strade rosse di terra battuta, le piantagioni di banani, le case di fango rosso, i bambini dappertutto, le montagne avvolte di nebbia, il lago Vittoria, i mercati polverosi e coloratissimi agli incroci delle strade.

Si parte dalla capitale Kampala dove comincia subito l’Africa: i mototaxi su cui si sale minimo in tre, le signore colorate che vendono banane grigliate e ananas a clienti affacciati al finestrino dell’auto, la canna da zucchero macinata di fianco alle case, il rumore dei camion sulle strade piene di buche.

È un paese in cui incontrare incredibili animali selvatici in modo emozionante e molto diverso da un safari che si può fare in vicine parti dell’Africa: qui si va a piedi, camminando, incontrandoli davvero da vicino.

I primi che incontro sono i grandiosi rinoceronti bianchi reintrodotti nella riserva di Ziwa: a piedi seguendo un ranger armato, nel bush con il caldo torrido, posso avvicinarmi in silenzio a qualche metro da una famiglia di questi giganti che sonnecchiano all’ombra di un albero, sbuffando, russando e aprendo a tratti un occhio solo.

La Toyota Land Cruiser su cui vivrò tutto il viaggio riprende la strada rossa per arrivare nel Parco Nazionale Murchison Falls, alle cascate del Nilo Vittoria, luogo epico nella mente di tutti i viaggiatori.

Il fragore dell’acqua si sente da lontano, prima di arrivare alla cascata un elefante attraversa la strada.

Il lodge per la notte è un campo tendato, nel silenzio si sentono solo i versi degli ippopotami che escono dal fiume.

Nelle Murchison il primo safari con la jeep è quello più classico: antilopi, elefanti, gli uccelli marabut, le gazzelle di Jackson con le corna avvitate, le giraffe, un ghepardo addormentato sull’albero, le zampe morbide che penzolano nel sonno.

Il secondo safari invece è a bordo di una chiatta che lentamente risale il Nilo fino alle cascate: sulle rive del fiume i bufali che fanno il bagno nel fango, i coccodrilli che li aspettano, le aquile pescatrici che guardano dall’alto e una grande pace nel sole dell’equatore.

Scrivevo poco sopra che in Uganda si possono incontrare gli animali da vicino: nella foresta di Kibale è possibile avvicinarsi agli scimpanzé nel loro ambiente naturale. La foresta qui è fatta di ficus enormi alti anche 30 metri con le liane  che penzolano fra un albero e l’altro. Appena mi addentro fra gli alberi una piccola sagoma nera mi cammina davanti, un tuffo al cuore! È un piccolo scimpanzé che zampetta veloce verso l’albero su cui sono saliti gli altri componenti della sua famiglia: una decina di scimpanzé si è riunita per pranzare con i frutti gialli e lasciano cadere i grossi semi tondi che schivo perché non mi cadano in testa. Le femmine con i cuccioli arrampicati addosso, gli schianti dei rami che si rompono, le urla di queste scimmie mi fanno quasi paura, ma l’emozione più grande è di sentirsi qui, con loro ma a casa loro, fra il verde delle foglie ed il caldo tropicale. Hanno uno sguardo profondo come il mio, ci guardiamo alla breve distanza di un ramo della catena evolutiva.

Poi l’Uganda è fatta anche di persone, tantissime, giovanissime, una sosta nel mercato di un villaggio sperduto sul lago: le signore vestite con dei meravigliosi e a volte improbabili tessuti wax, per terra sui teloni vendono carbone, farina, pesce secco, zucche, infradito fatte con i copertoni delle auto, stoviglie di latta… E donne bellissime e bambini dappertutto, senza scarpe, quelli più grandi con in braccio altri più piccoli, che ridono e vogliono fare le foto, che fanno venire un nodo alla gola scatenando tutti i pensieri del mondo sull’ineguaglianza e sulla sproporzione delle nostre vite.

La tappa successiva è il Queen Elizabeth Park, per un fotosafari in jeep alla ricerca dei leoni arboricoli. Trovati! Con il caldo della giornata che avanza, probabilmente dopo il loro pranzo, su un basso albero si sono appollaiati quattro leoni: un grande maschio, la leonessa e due giovani maschi con un accenno di criniera. Si sentono i respiri veloci del leoni dal tetto della jeep, si vedono i cuscinetti delle zampe e le code che penzolano dai rami.

‘Ho capito come si fosse sentito Noe’ mentre imbarcava tutti gli animali sull’arca’ questa è la sensazione che ho provato sul canale di Kazinga, che unisce i due laghi principali del paese: elefanti che fanno il bagno, le narici degli ippopotami che sbucano dall’acqua, i bufali che litigano per il posto migliore, tantissime specie di uccelli blu, gialli, arancioni…

E infine la tappa che ho sognato: i gorilla di montagna. La foresta impenetrabile di Bwindi è uno dei punti in cui si può cercare di incontrare questi splendidi giganti, protetti perché ne rimangono solo poche centinaia in tutto il mondo. E si chiama ‘impenetrabile’ per un buon motivo: è una foresta che si sviluppa sulla montagna dai fianchi ripidi, con arbusti spinosi, formiche rosse che pizzicano, buchi nel terreno, tronchi marci e rami bassi; la camminata per arrivare insieme ai tracker ed ai portatori può essere anche di diverse ore perché i gorilla si possono muovere in fretta. Dopo il diluvio del giorno precedente sopra la nebbia si apre un cielo blu, i ranger hanno degli enormi fucili e deviano il percorso -sentiero di dice barabara- perché ci sono dei bufali vicini; camminare nella foresta è difficile ma bellissimo, pieno di profumi e con il sole che filtra fra i rovi. Dopo 3 ore finalmente, i giganti neri, mangiano bambù seduti in una piccola radura: il maschio silver back e due femmine con i cuccioli.

I piccoli sembrano giocare mentre con le dita cercano le larve da mangiare in un tronco marcio: fanno quella cosa di battersi il petto con i pugni che in un cucciolo con lo sguardo dolce fa una gran tenerezza.

L’enorme maschio – la raccomandazione era di non guardarlo negli occhi – ma lui non ha alcun interesse che vi siano degli umani a fotografarlo: guarda i tracker con uno sguardo che significa inequivocabilmente ‘ma siete ancora qui?!?’ e si fa spulciare la schiena dalla femmina, per poi rimettersi a mangiare bambù che sradica con quelle mani enormi.

La foresta, quello sguardo, quel silenzio, non lo dimenticherò mai più.

‘È sufficiente sapersi nomadi una sola volta per avere la certezza che si ripartirà, che l’ultimo viaggio non sarà affatto l’ultimo’ scrive il filosofo Michel Onfray.

Io non vedo l’ora di ripartire.

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